Aurelia Accame Bobbio «Le riviste fiorentine del principio del secolo (1903-1916)» (1936)

Recensione a Aurelia Accame Bobbio, Le riviste fiorentine del principio del secolo (1903-1916), Firenze, Sansoni, 1936, in «Leonardo», a. VIII, nn. 11-12, Roma, novembre-dicembre 1936, pp. 359-362. Articolo poi ripubblicato in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

Aurelia Accame Bobbio «Le riviste fiorentine del principio del secolo (1903-1916)»

Dirò subito che, espositivamente, e per l’onestà delle letture (la Bobbio studia le riviste «Leonardo», «Hermes», «Regno», «Voce», «Anima», «Lacerba», pure accennando incidentalmente al «Marzocco», la «Difesa dell’arte», il «Cimento», il «Centauro» ecc.: ma giustamente insiste sul «Leonardo» e la «Voce») questo libro mi aveva fatto sperare (quando i libri si sfogliano qua e là, per osservare la loro struttura e la sostanza di cui sono materiati) in un lavoro storicamente decisivo per un periodo cosí importante come quello del movimento fiorentino dell’anteguerra. Ma osservando il libro nelle sue giunture strutturali, ebbi l’oculatezza di cominciare la lettura dalla conclusione, dove l’autrice, volendo darci un finale esame valutativo di ciò che aveva presentato descrittivamente, un giudizio di valore che illuminasse le pagine precedenti, proietta un suo privato desiderio di come le cose avrebbero dovuto svolgersi su di una realtà storica che ha un suo volto ben diverso. Le tre paginette della conclusione andrebbero testualmente riferite per far comprendere quale sorpresa sia riserbata all’onesto lettore che sperava in un esame spregiudicato e sanamente storico di un periodo decisivo per lo svolgimento della nostra cultura. Basterà riportare la conclusione piú perspicua che l’autrice ritrae dal suo lavoro: «I tre aspetti del movimento fiorentino, filosofico, letterario e politico, sono dunque strettamente connessi fra loro. L’esigenza di un Dio trascendente, che avevamo trovato come conclusione della filosofia, ritrovammo poi riflessa nell’arte e nella vita». Esigenza di un Dio trascendente che significherebbe il superamento del romanticismo, affrettato dalla salutare catastrofe bellica e attuato da alcuni spiriti illuminati e da tutto un movimento che «vediamo riflesso nella conversione del Papini al cattolicesimo, come nella conversione del Soffici a un’arte serenamente classica, o nel misticismo cristiano del Manacorda» (sic, p. 297). Vero è che «questi rimangono tuttavia segni troppo isolati e vaghi per dedurne un ritorno risoluto e cosciente del mondo in cui viviamo, a Dio». La colpa, come ci si può immaginare, è di quella cocciuta fede nell’immanente che, fonte maligna di ogni sventura, suscita una giusta lezione catechistica sulla realtà del Dio trascendente e sulla immoralità anche pratica della vita attuale. Di fronte a tanta rovina la disperazione potrebbe assalire il devoto lettore, ma un inaspettato «tuttavia» ci ammonisce a sperare ancora qualcosa, a causa del rinnovamento italiano, in un futuro meno peccaminoso ed incredulo.

Lo spirito che si manifesta cosí inequivocabile nella conclusione non può fare a meno di circolare per tutto il libro, anche dove tenta di mantenersi in un tono di onesta esposizione: sí che non potremmo trovare una pagina in cui non ci si presenti una costante deviazione dalla storia.

Il libro ha inoltre un difetto fondamentale: la tripartizione in Filosofia, Arte e Politica anchilosa e schematizza le migliori ricchezze dei vociani che vanno considerati particolarmente come personalità piú che come tecnici, e il cui interesse era qualificatamente integrale: tanto vero che proprio la scissione della «Voce» in letteraria e politica minò immediatamente il carattere originale di completa umanità che aveva la vecchia rivista e con ciò il suo reale valore.

Non ci dobbiamo mai scordare nei nostri rapporti con la «Voce» (le riviste fiorentine, quelle che non si posero nella qualità risolutiva di esatte specializzazioni come l’importante «Unità» di Salvemini, si riassumono per il loro meglio nella «Voce») che quel tecnicismo assillante, quel problemismo particolare che restava del resto piú programma che attuazione derivavano da un’aspirazione alla concretezza, alla presenza continua dell’universale in ogni minimo atto spirituale. I vociani hanno al loro attivo, limite e pregio, alcune dichiarazioni indici come «Abbiamo tenuto a riaffermare, di fronte ai pensatori del transeunte, una veduta sull’assoluto», che non stonavano con altre come «intendiamo star sempre sul sodo». È perciò per lo meno ammonitoria l’affermazione di tale carattere totalitario e fondamentale della «Voce» affinché con suddivisioni di interessi non se ne nullifichi il principale, genuino interesse. È evidente che i vociani non hanno portato né una nuova formula di pensiero né una pagina di vera arte né un partito politico, ma è proprio in questa incapacità particolare, in questo valore formativo, morale che risiede la serietà del movimento. (La Bobbio non ignora del tutto tale natura essenziale della «Voce», ma non la fa assurgere a motivo dorsale e conclusivo.)

È perciò pericoloso, per non dire insidioso, il voler parlare distintamente dei risultati del movimento vociano.

Nella parte intitolata La filosofia è presentata abbondantemente la storia del «Leonardo», del suo pragmatismo, della «Voce» nella sua posizione di fronte al modernismo, della soluzione idealistica di Prezzolini e dell’irrequietezza di Papini. Premettiamo che non ci riescono gradite alcune generalizzazioni iniziali sulla filosofia italiana alla nascita del «Leonardo», non autorizzate e tendenziose: «Nella reazione che s’imponeva alle menti migliori di fronte alle ultime degenerazioni della filosofia ufficiale positivista e materialista, a poche passava in mente di rintracciare i fondamenti del nuovo pensiero nella filosofia greco-romana, continuata nella filosofia cristiana e veramente italiana di S. Tommaso d’Aquino».

L’autrice pone giustamente, ma esagerandone l’importanza, le esigenze del «Leonardo»: nel «bisogno di rivedere criticamente le posizioni assunte dal pensiero contemporaneo e il desiderio di riaccostare questo alla vita, di trovare anzi nella filosofia il passaggio a una superiore vita dello spirito», e in tal vaga giovanile esigenza essa stessa rileva la capacità dei leonardiani a far propri i lati piú appariscenti del pragmatismo o le piú strambe ed esaltative teorie magiche o le storte interpretazioni dell’idealismo nell’accezione magica novalisiana. (Buono l’esame del pragmatismo nel suo ambientamento italiano.) Ma già qui la tesi della Bobbio si affaccia incarnata in colui che sarà il martire, l’eroe, il portatore delle esigenze piú pure e dell’unico risultato possibile: cioè Giovanni Papini. Anche noi riconosciamo la paternità del «Leonardo» a quest’anima sincera e confusa, ma appunto in quanto il «Leonardo» rappresenta il momento piú volontario e caotico del movimento fiorentino dell’anteguerra.

La Bobbio invece trova il punto di partenza del suo libro proprio nella santa irrequietezza papiniana, nella sua scontentezza di tutti i sistemi filosofici, non per crearsene uno personale piú basato, ma per sfociare nella fede: le stramberie del «Leonardo» papiniano sono per lei preziosi indici di una crisi di guarigione, di un errare che conduce alla meta.

La serietà che si attribuisce a Papini, la sua solidità spirituale che nelle varie esperienze avrebbe sceverato il buono dal cattivo e fiutato con rapidità sorprendente l’errore dei filosofi (e si confessa che i suoi contatti con la filosofia avvennero «non sempre sui testi diretti», p. 33), contrastano eccessivamente con la realtà piccola di quell’anima che nasceva al mondo della cultura, piena di indiscriminati e confusi fervori per finire in un deciso dogmatismo. La difesa strenua della filosoficità di Papini non ha appigli con i risultati concreti di quello scrittore, non convince neppure l’affermazione di una sua umiltà filosofica che lo porrebbe nuclearmente in vantaggio sull’atteggiamento crociano: «Il Croce è soddisfatto, Papini no, e questo non soltanto per mania negatrice ma, nonostante le apparenze, per maggiore umiltà filosofica». Né si può graziosamente concedere che il buon senso riconosciuto in Papini sia un’arma valevole filosoficamente.

Si arriva poi all’incontro col modernismo e l’autrice, piú che rilevarne le ragioni storiche e sinceramente sperimentali, preferisce volgere il suo acume critico sull’eresia modernista e sull’onesto estremismo prezzoliniano, accusato di un’empia distinzione fra cristianesimo e cattolicesimo e di un degradante istinto verso l’idealismo.

A questo punto si chiarisce la funzione esemplare dei due maggiori vociani: Prezzolini la tendenza all’idealismo, Papini il generoso vagare verso la luce della verità («c’era in lui il presentimento d’una realtà che la filosofia non basta a inquadrare nei suoi ragionamenti e che è raggiungibile solo con la dedizione e lo slancio di tutto l’essere umano»).

È perciò possibile distinguere in due capitoli due categorie di vociani: le anime contente e le anime inquiete: la prima è tutta per Prezzolini («Cosa volevate di piú dall’antico Giuliano? Lasciamolo dunque in pace», p. 87); nell’altra, oltre Neal, Marrucchi, troviamo Boine (che richiederebbe una trattazione piú ampia e spregiudicata della sua vera religiosità), Amendola, Papini, nel quale avveniva la liquidazione di una sua filosofia che noi peraltro non conosciamo, la crisi blasfema di «Lacerba» e finalmente la conversione al cattolicesimo, dall’alto del quale egli poteva pacatamente concludere: «Paleae videntur». Un capitoletto conclusivo per questa parte fa consistere il merito del «Leonardo» e della «Voce» nell’affermazione della trascendenza dell’oggetto di fronte al pensiero, e culturalmente nell’aver sgombrato l’Italia dai movimenti filosofici di origine straniera, mentre è evidente che il merito vociano sta proprio nell’avere allargato l’esperienza italiana a quelle tendenze europee: questa presunta eliminazione sanfedistica (compiuta mostrando quei movimenti nelle loro conseguenze estreme) degli errori stranieri non collima col vero interesse e col vero risultato dei vociani che fu squisitamente antiprovinciale, europeo, educativo: accostavano nuovi nessi speculativi, per accrescere il nostro pensiero, non per il gusto infantile di smontarli e distruggerli.

Insomma il gruppo fiorentino, di fronte al movimento idealistico negatore di Dio o da questi perseguitato, ci insegnerebbe una piú viva corrispondenza di vita e pensiero, corrisponderebbe «al bisogno di Dio, che oggi l’anima italiana, desiderosa di credere in una realtà sopraumana come criterio di verità, di una legge morale che dal di fuori le si imponga e a cui possa adeguarsi come a una necessità liberamente, ma doverosamente riconosciuta» (p. 108).

Si sperdono cosí i caratteri positivi della «Voce», consistenti proprio in una accentuazione della moralità intima e d’altronde nella chiara volontà di movimento europeo.

Difetti che ritroviamo nel capitolo intitolato L’arte, schematicamente uniformato, nella struttura esemplare e ammaestrativa, al primo.

La preoccupazione di seguire una linea di sviluppo che indichi l’apporto del gruppo fiorentino nei suoi diversi rappresentanti ad una tendenza di rinnovamento artistico che andrebbe congiunto sostanzialmente al trionfo dell’ortodossia, e d’altra parte l’intento di cogliere tutto il complesso movimento artistico dell’anteguerra attraverso i vociani, mantiene il capitolo in una confusa direttiva: la descrizione del clima artistico generale non resta sfondo su cui si staglino le personalità studiate, né però queste si immergono in una decisa storia letteraria di tutto il periodo.

Lo schema anzi si appesantisce avvalorandosi di una tesi ormai usuale della decadenza del romanticismo e di un albeggiare di rinnovamento individuato in temperamenti tradizionalisti e antieuropei. Per tale linea degenerativa della nostra letteratura, la Bobbio risente del moralismo astratto del Novecento del Galletti, e per gli accenni precisi agli autori si rifà alla Storia letteraria del Momigliano nella sua parte meno felice.

Anche alcune idee giuste (reazione all’aulicità tradizionale e al romanticismo sentimentale della letteratura postcarducciana) non sono incentrate criticamente se non in motivi moralistici e indirizzati al solito accenno di rinnovamento odierno coincidente col riacquisto della fede: fino all’auspicio di una specie di poeta necessario: «E speriamo che, in quest’Italia che sembra avviata a ritrovare la fede in tutti gli ideali, integrati e concretati nella fede in Dio, sorga presto il poeta che celebri con la sua arte la nostra guarigione» (p. 225).

I capitoli migliori sono quei rari che restano fuori di tale linea e perciò i meno impegnativi, i piú descrittivi del libro: le osservazioni su Jahier, sull’«Hermes» del Borgese, gli accenni alla funzione della «Voce» come tramite dell’arte europea nella cultura italiana o alla prosa giornalistica e nuova di quella rivista.

Poi il solito protagonista torna in scena: Papini, man mano che s’avvicina al San Graal della conversione, cresce di poesia: e perché? «il vivo senso dell’oggetto lo salvò dal panlogismo e dal solipsismo; come fu nella filosofia, cosí anche nell’arte».

Insomma questo preteso dramma della ricerca di un ideale potrebbe esser semmai – condotto con altra mentalità – uno studio sulla religiosità post-romantica italiana, fondata anche su testi poetici, ma non può in nessun modo valere per la nascita della nuova letteratura. C’è, proprio nei riguardi del periodo nuovo, una assoluta mancanza di oggettività (sarebbe il caso di invocare ora noi il «vivo senso dell’oggetto») e il non tener conto del fondamento nuovo della poetica moderna, delle condizioni speciali in cui l’Italia elaborò il nuovo clima e del suo chiaro momento europeo.

La parte che piú risente di tale difetto storico è quella dedicata alla politica, in cui la sufficienza dell’autrice si rileva come fondamentale incomprensione del movimento vociano. Non bisognava costruire un astratto ponte di passaggio dal Risorgimento a noi, trovando nel Risorgimento una carenza spirituale di stampo neoguelfo e nel periodo studiato un preannuncio di politica realistica ed ispirata alla conciliazione di Stato e Chiesa. Lucide esposizioni degli atteggiamenti del «Regno»[1], dei suoi vari collaboratori, del distacco di Prezzolini e Papini da Corradini, non mancano, ma quello che manca è il senso esatto del valore formativo, non politico, ma preparativo alla politica, dei vociani.

È facile accusare la «Voce» di letteratura, dire che non aveva un programma ben determinato, insistere sulla sua astrattezza idealistica: ma in tale maniera si perde ogni senso della storia che nella dialettica di meriti e demeriti scevera quella radice essenziale da cui essi dipartono e li valorizza adeguatamente. Nessuno vuol negare alla «Voce» e soprattutto a Prezzolini quel certo che di rigoristico che li rende a volte cosí ridicoli ed antipatici, ma non ci si può accontentare di tale facile determinazione senza approfondire le ragioni piú intime di quell’atteggiamento. E se è vero che la pratica li ha continuamente saltati (guerra libica, intervento), tale fallimento non esclude che un movimento che riprendesse tutti i problemi vitali del paese trattasse l’Italia come una nazione nuova in cui tutto è da fare, importava un fermento positivo e valevole come preparazione ad avvenimenti e movimenti piú concreti.

Parole come formazione, cultura dell’anima precisano un atteggiamento morale che voleva riprendere il Risorgimento, approfondirlo ripercorrendo il processo unificativo italiano in senso piú formativo. Volevano i vociani una rivoluzione in profondo, non uno sconvolgimento superficiale come i futuristi: dunque una preparazione alla politica, una formazione di caratteri capaci di dare un valore morale alla politica. I politici potevano perciò staccarsi e fondare l’«Unità», ma ciò indica semplicemente qual è il punto che caratterizza la «Voce»: uno stile integrale, morale (facile ad ironizzarsi e facile realmente a trasformarsi in moralismo) che esclude la formazione di un partito dogmatico, pregiudiziale.

E ad ogni modo la Bobbio non ha neppure visto una questione che personalizza l’atteggiamento di politica interna della «Voce» e che deriva dal suo speciale carattere educativo morale: il problema del Mezzogiorno. Problema che dipendeva dalla soluzione del problema della scuola e dell’analfabetismo (mettere le plebi rurali del Mezzogiorno nella possibilità di votare e di prender parte alla vita della nazione) e importava la soluzione dei problemi dell’emigrazione, dell’espansione, del latifondo, della nuova economia. Punto caratteristico che ci riporta d’altronde a quella accennata visione dei problemi sociali e politici in funzione morale.

Si va lontani da questa obbiettivazione del valore vociano quando si pone in primo piano il patriottismo di Papini, si esalta Corradini, si fa della patria uno strano surrogato della fede nel Dio cattolico («Meglio la patria, piuttosto: cara realtà concreta, legata ai nostri piú intimi affetti, ai nostri piú vitali interessi, alle nostre piú care memorie», p. 279). Allora è inutile accennare ragionevolmente alla qualità morale della «Voce» se poi la si squalifica compassionandola come vano tentativo di poveri uomini di fronte ad un’unica soluzione risaputa («necessità di educare moralmente nel cittadino l’uomo, non per mezzo di una filosofia come quella che fece fallire la “Voce”, ma per mezzo di una filosofia che, senz’essere naturalmente una teologia, tuttavia non litighi con questa, che sola, sia come soliloquio agostiniano, sia come umile catechismo, può dar ragione del pellegrinaggio terreno e colmare l’inquieto sospiro del cuore umano», p. 295). Che bisogno c’è di parlare di deficienze politiche nei vociani se poi si giunge a tale conclusione?

Tutto questo libro ha il chiaro aspetto della storia di una malattia e di una guarigione, e tale perizia medica ai fini della nostra cultura non riveste nessun carattere di utilità essendo totalmente astratta dalla realtà storica: per la Bobbio la storia del gruppo fiorentino è una storia di errori, di felici errori che conducono al cattolicesimo e allontanano, a parte i reprobi, dalla filosofia e dalla cultura europea: per la storia invece vale formativamente per una coscienza piú larga e piú solida, piú intelligente e comprensiva.

Questo carattere preparatorio della «Voce», con la sua possibilità di accogliere diversi indirizzi con un unico accento di seria volontà di preparare un clima di capacità rivoluzionarie, favoritore di esperienze e di utili estremismi, è il suo vero valore positivo, storico.

Ogni altra giustificazione parziale, finalistica rispetto ad un determinato sfociare dogmatico pecca di arbitrio e di incomprensione.


1 Si comincia infatti con una spicciola liquidazione del periodo postrisorgimentale e con un’accurata presentazione del nazionalismo corradiniano.